Dottorato honoris causa in Economia, Management e Statistica a Santo Versace

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A Santo Versace, l’Università degli Studi di Messina, ha conferito il dottorato honoris causa in Economics, Management and Statistics.

Pubblichiamo la Lectio Doctoralis di Santo Versace dal titolo “Dal Superfluo all’Essenziale. Riscoprire il lusso italiano come strumento di Innovazione Armonica e inclusione”.
SOMMARIO
1. La visione come risorsa generativa
— La visione imprenditoriale come risorsa immateriale nata dagli insegnamenti della famiglia.
— Il modo in cui la visione ha determinato trasformazioni profonde nel percorso personale e imprenditoriale.
— L’impresa familiare Versace come motore evolutivo e generatore di nuove possibilità.
— La capacità del modello Versace di valorizzare cultura, identità e competenze locali.
— Da Reggio Calabria al mondo: l’esperienza concreta di una visione imprenditoriale che diventa paradigma globale.
2. Versace come caso paradigmatico: asset culturale e sistema produttivo
— Il brand Versace come espressione concreta di un modello produttivo ad alto valore simbolico.
— L’organizzazione aziendale costruita come elemento essenziale per la scalabilità e il successo internazionale.
— La strategia di internazionalizzazione adottata per posizionare Versace sui mercati globali.
— L’impatto diretto del brand Versace sullo sviluppo territoriale, dal sud Italia al mondo.
— L’esperienza nella costruzione di una fililiera industriale integrata di eccellenza.
3. Ecosistema imprenditoriale e leadership istituzionale
— L’impresa culturale e creativa, come Versace, quale attivatore potente di capitale umano.
— L’esperienza diretta nella costruzione di reti e partenariati strategici.
— Il ruolo assunto nella leadership manageriale: dalla visione imprenditoriale alla coesione del settore.
— L’esperienza diretta di fondazione e guida di Altagamma come infrastruttura collettiva per il made in Italy.
— Il contributo offerto per spostare la leadership aziendale verso una leadership di sistema nazionale.
4. La restituzione come principio etico dell’impresa
— La restituzione come valore fondamentale, centrale nella filosofia imprenditoriale.
— Il ruolo determinante di Francesca De Stefano Versace nella Fondazione Santo Versace Ente filantropico.
— La solidarietà come principio cardine che ha guidato ogni scelta imprenditoriale.
— L’etica del fare, attraverso l’azione concreta, la partecipazione civica, e l’inclusione sociale promosse direttamente dalla Fondazione.
5. Oltre il modello: verso un’economia trasformativa 
— La visione imprenditoriale come lente di lettura per un’economia più umana e sostenibile.
— Dal superfluo all’essenziale: una riflessione su come ridefinire il lusso italiano, non come semplice consumo ma come valore etico e sostenibile.
— Innovazione Armonica: un approccio per integrare crescita economica, responsabilità sociale e impatto positivo.
— Il caso Versace come possibile archetipo di un nuovo paradigma economico, capace di includere e valorizzare il benessere collettivo.
— L’impresa intesa come piattaforma culturale, sociale e inclusiva, un modello concreto che va oltre il profitto per generare valore condiviso e duraturo.

Magnifico Rettore, Illustri Autorità accademiche e civili, care studentesse e cari studenti, prima di tutto vorrei dirvi grazie di cuore per questo riconoscimento. Ricevere il Dottorato Honoris Causa in Economics, Management and Statistics qui all’Università di Messina, proprio dove molti anni fa ho iniziato il mio viaggio laureandomi, è per me motivo di grande gioia e profonda emozione. È bellissimo essere di nuovo qui con voi, nel luogo dove ho cominciato a sognare il mio futuro.
Sono nato e cresciuto a Reggio Calabria, in una famiglia che mi ha insegnato soprattutto l’importanza del lavoro fatto bene, della passione autentica e del rispetto per gli altri. Da mio padre e mia madre ho imparato che il vero successo si costruisce sulla serietà, sulla determinazione e sulla capacità di guardare sempre avanti senza mai perdere di vista
i valori essenziali. L’Università di Messina è stata per me il naturale compimento di questo percorso educativo iniziato in famiglia: qui ho avuto l’opportunità di rafforzare questi valori e di tradurli in conoscenze e competenze concrete, aprendomi gli occhi sul mondo e preparandomi ad affrontare le sfide professionali con consapevolezza e coraggio.
Con dedizione e costanza, riuscii a sostenere tutti gli esami entro l’ottobre del 1967. Nel luglio del 1968 mi laureai con una tesi sperimentale dal titolo “Effetti economici della spesa pubblica”. Per elaborarla, raccolsi personalmente dati dai bilanci dello Stato italiano dall’Unità d’Italia (1861) fino al 1965: un lavoro di ricerca meticoloso che comprese lunghi
mesi trascorsi nei seminterrati del Ministero dell’Economia a Roma per raccogliere e catalogare tutti i dati necessari. Fu uno studio pionieri stico, mai realizzato prima, per capire a fondo come la spesa pubblica influenzasse il reddito nazionale. Ebbi la fortuna di avere docenti di altissimo livello, e la serietà di un Ateneo esigente e selettivo come
quello messinese mi spronò a dare il massimo: a Messina o ti impegnavi seriamente e studiavi tanto, oppure venivi bocciato. Questa severità era garanzia di qualità e preparazione.
Lasciatemi dire che quegli anni a Messina non furono fatti solo di studio e libri. Ogni settimana attraversavo lo Stretto in traghetto da Reggio Calabria per frequentare le lezioni. Quella traversata, tre giorni alla settimana, era per me un piccolo rito quotidiano: fissavo l’orizzonte, riflettevo e sognavo a occhi aperti il futuro che avrei costruito grazie a
ciò che stavo imparando. Parallelamente, mi impegnai attivamente nella vita studentesca e politica: aderii all’Unione Goliardica Italiana (UGI),espressione importante della sinistra giovanile di allora. Sentivo in quell’impegno l’eredità ideale di mio nonno materno, Giovanni Battista Olandese, anarchico socialista, deportato a Lipari per aver contestato apertamente il generale Morra durante le rivolte dei contadini siciliani.
Erano anni ruggenti: mi laureai nel luglio del 1968, pochi mesi dopo il Maggio francese, un periodo di grandi cambiamenti sociali e culturali. Anch’io marciai per il Vietnam, partecipando al fervore politico e civile che in quegli anni attraversava tutta Europa.
Tornare oggi in queste aule, vedere voi ragazzi così pieni di sogni e speranze, mi emoziona e mi ricorda quei giorni straordinari in cui anch’io se devo esattamente al vostro posto, con mille domande e una gran voglia di fare qualcosa di importante. Oggi per me è davvero bello condividere con voi il mio percorso: una storia fatta sì di moda e di successi internazionali, ma soprattutto di una visione che ha preso vita grazie alla forza delle
mie radici e alla volontà di guardare lontano, oltre ogni limite apparente.
Prima di iniziare, permettetemi un ultimo pensiero rivolto proprio a voi studenti: aprite cuore e mente. Custodite con cura i vostri sogni e coltivateli ogni giorno. Anch’io ero lì, seduto su quei banchi, pieno di dubbi ma anche di desiderio di costruire qualcosa di grande. Non immaginavo allora quanto lontano sarei arrivato. Vorrei che questo racconto sincero
vi ispirasse e vi aiutasse a credere nella forza dei vostri sogni, coltivati con passione e responsabilità, proprio come io ho creduto negli insegnamenti ricevuti in famiglia e nella formazione che ho avuto la fortuna di completare in questa Università.

 La visione come risorsa generativa
Sin dall’infanzia ho compreso quanto la visione potesse essere una ri sorsa immateriale potentissima, un faro capace di illuminare la rotta nei momenti di buio. Questa consapevolezza nasce dagli insegnamenti della mia famiglia, che considero il mio primo grande patrimonio. Sono natoa Reggio Calabria, in una famiglia semplice e ricca di valor i. Mio padre Antonino – per tutti Nino – e mia madre Franca mi hanno trasmesso con
l’esempio l’etica del lavoro, il senso del dovere e della responsabilità.
Da bambino ero obbediente, da atleta disciplinato, da impiegato di banca coscienzioso: sono sempre stato un uomo del presente e del futuro, poco incline alla nostalgia e molto concentrato su ciò che di buono potevo costruire ogni giorno. Faccio mie le parole del grande scrittore calabrese Corrado Alvaro: «La disperazione più grave che possa impadronirsi d’una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile». Ecco, i miei genitori mi hanno insegnato proprio questo: che vivere rettamente non è mai inutile, ce l’onestà, la disciplina e la rettitudine sono fonda menta solide su cui edificare qualsiasi impresa.
Questa educazione al dovere è diventata parte integrante della mia visione imprenditoriale. Ma a cementare definitivamente il mio senso di responsabilità fu una tragedia familiare: la perdita prematura di mia sorella Tinuccia, quando io avevo solo nove anni. Quello fu il giorno in cui finì la mia infanzia e iniziai a sentirmi adulto. Improvvisamente mi ritrovai sentire tutta la responsabilità di essere il fratello maggiore di Gianni e a sentire su di me il dovere di prendermi cura di lui, di proteggerlo, di guidarlo. Forse è stato allora che ho iniziato a capire cosa significhi davvero prendersi cura degli altri e farsi carico di una responsabilità. Questo dolore condiviso unì ancora di più la nostra famiglia: i miei genitori, pur spezzati dal lutto, seppero reagire con straordinaria resilienza, dedicandosi ancora con più forza a noi figli e al lavoro. Da loro ho imparato che anche le avversità più grandi possono essere tra sformate in amore e dedizione verso gli altri.
Quegli eventi hanno plasmato in me un carattere determinato e un forte senso etico. Ho capito presto che un’impresa non è solo un’entità economica, ma innanzitutto una comunità di donne e di uomini. Così, quando negli anni ‘70 iniziai il percorso imprenditoriale insieme a mio fratello Gianni, portavo con me questo bagaglio di valori. La visione imprenditoriale che ci guidò nasceva proprio da lì: dal sogno di due fratelli di trasformare il talento creativo in progetto d’impresa, e dal desiderio di onorare i sacrifici dei nostri genitori. Ero convinto che una visione chiara potesse attivare trasformazioni profonde, anche partendo da un
contesto periferico. E avevo ragione. L’impresa familiare Versace ha rappresentato il terreno fertile in cui questa visione si è sviluppata come risorsa generativa. Immaginate due giovani calabresi, cresciuti nella sartoria della propria madre a Reggio Calabria, che decidono di sfidare il mondo della moda internazionale. Sembrava un sogno folle. Eppure la nostra visione – quella di creare qualcosa di unico, radicato nella nostra identità e al tempo stesso capace di parlare al mondo – è stata la scintilla che ha innescato un percorso di
crescita straordinario. Dalla piccola sartoria di provincia abbiamo tratto ispirazione, competenze, amore per il dettaglio; da Reggio Calabria abbiamo ereditato una cultura antica, fatta di bellezza mediterranea e orgoglio per le proprie radici. Questa eredità culturale e familiare è diventata il motore evolutivo dell’impresa Versace, generando possibilità che nessuno inizialmente avrebbe potuto immaginare.
La visione condivisa tra me e Gianni ha determinato trasformazioni profonde sia nel mio percorso personale sia in quello aziendale. Sul piano personale, mi ha portato a lasciare la Calabria – con la sicurezza del noto – per trasferirmi al Nord e poi girare il mondo, spinto dalla volontà di affermare il nostro progetto. Sul piano imprenditoriale, quella visione ha plasmato ogni scelta strategica: dalla creazione del marchio Versace, alla costruzione di un’organizzazione aziendale moderna, fino all’apertura di negozi nelle capitali della moda. Siamo passati dall’essere artigiani sognatori nella bottega di famiglia a imprenditori globali,
mantenendo però intatto lo spirito originario. Da Reggio Calabria al mondo: la nostra esperienza concreta dimostra che una visione imprenditoriale, se autentica e sorretta dai valori, può davvero diventare un paradigma globale, un modello a cui tanti altri possano guardare. E qui, permettetemi di lanciare un messaggio ai giovani: non lasciatevi mai dire
che il vostro orizzonte è limitato dalle vostre origini. Io ho trasformato quello che qualcuno considerava un limite – nascere in una realtà peri ferica del Sud – in un punto di forza, portando nel mondo la ricchezza della mia terra. La vostra visione, nutrita dalle vostre radici, può diventare il vostro vantaggio competitivo più grande.
Versace come caso paradigmatico: asset culturale e sistema produttivo
Vorrei adesso portarvi dentro il percorso Versace, perché credo possa rappresentare un esempio paradigmatico di come un’impresa creativa possa diventare un vero e proprio asset culturale e un sistema produttivo di rilevanza globale. Il brand Versace non è stato solo un marchio di moda, ma l’espressione concreta di un modello produttivo ad alto valore
simbolico. Cosa intendo per valore simbolico? Intendo quella capacità di un prodotto – in questo caso abiti e creazioni di moda – di veicolare significati, estetica, identità. Versace vendeva vestiti, sì, ma attraverso quei vestiti diffondeva cultura, un certo stile di vita, l’immagine di un’Italia audace, creativa e sofisticata. Al centro di questo modello c’era la creatività di Gianni Versace, una creatività esplosiva e fuori dagli schemi, che è stata la leva distintiva del made in Italy degli anni ’80 e ’90. Gianni era un genio visionario: affascinato dall’arte classica e barocca, dalle tradizioni del Mediterraneo come dai fermenti della pop culture.

La Medusa – simbolo del nostro brand – rappresentava proprio questa fusione di classicità e audacia con temporanea. Con le sue intuizioni stilistiche, Gianni ha rivoluzionato il linguaggio della moda: ha mescolato alta moda e cultura pop, ha portato in passerella top model come star del rock, ha creato eventi multimediali quando ancora nessuno parlava di fashion show spettacolari. Insomma, ha osato, rompendo gli schemi tradizionali. In un’intervista lo disse chiaramente: un designer deve sfidare le regole e rompere la norma. Era la sua natura essere controverso se necessario, pur di affermare una visione estetica nuova. Questa carica creativa è stata il cuore pulsante di Versace e ha dato al marchio un’identità fortissima, riconoscibile ovunque. Ma – lasciatemi sottolinearlo per gli studenti di economia – la creatività da sola non basta a costruire un impero. Accanto al genio creativo di Gianni, è stata fondamentale l’organizzazione aziendale che ho costruito, un’architettura manageriale solida che ha reso possibile la scalabilità e il successo internazionale dell’impresa. Dietro le quinte delle sfilate scintillanti e dei red carpet, c’era un lavoro intenso e rigoroso di gestione: pianificazione finanziaria, controllo di gestione, sviluppo di prodotto, distribuzione. Da laureato in Economia, ho messo le mie competenze manageriali al servizio del sogno creativo di mio fratello. Ho negoziato contratti, organizzato la produzione, selezionato collaboratori e partner, strutturato una rete commerciale. Creatività e pragmatismo hanno camminato fianco a fianco. Ricordo ancora quando nel 1978, agli albori del nostro marchio, dovetti convincere i fornitori e le banche a credere in due giovani con tanta passione ma poca storia alle spalle. Fu essenziale instaurare fiducia, mostrare con i fatti che, dietro l’estro di Gianni, c’era un’impresa seria, con i conti in ordine e una strategia chiara.
Uno dei pilastri di questa strategia è stata l’internazionalizzazione. Ho sempre avuto chiaro che per posizionare Versace ai vertici del mercato mondiale dovevamo uscire dai confini nazionali e competere sui mercati globali. Negli anni ’80 abbiamo aperto boutique a Milano, poi a New York, Londra, Parigi, fino ad arrivare a Tokyo e Hong Kong.
Ricordo i viaggi interminabili, le sfide logistiche, le differenze culturali da comprendere. Siamo stati tra i primi marchi italiani a credere nelle potenzialità del mercato latino-americano, organizzando già alla fine degli anni ’80 un evento memorabile a Città del Messico con tutte le supermodelle del tempo. All’epoca gli stilisti europei ignoravano in gran parte il Sud America, e noi invece eravamo lì, pionieri, a seminare il seme del nostro brand. Capimmo anche presto l’importanza del mercato asiatico, quando la Cina era ancora “lontanissima” – chi avrebbe immaginato che oggi la Cina avrebbe rappresentato metà del mercato mondiale del lusso! Questa visione globale ci ha permesso di portare il nostro fatturato da pochi miliardi di lire a centinaia di milioni di euro, trasformando Versa
ce in uno dei simboli del lusso internazionale. L’impatto del brand Versace sullo sviluppo territoriale è stato significativo, dal Sud Italia al resto del mondo. Innanzitutto in Italia: grazie a Versace (e ad altre maison come la nostra), distretti artigianali e produttivi hanno prosperato. Abbiamo sempre creduto nel Made in Italy, producendo i nostri capi quasi esclusivamente in Italia e coinvolgendo laboratori e aziende manifatturiere di eccellenza, spesso a gestione familiare come la nostra. In questo modo abbiamo contribuito a mante
nere viva una filiera industriale integrata di eccellenza fatta di tessitori, serigrafi, orafi, artigiani del cuoio, capaci di realizzare il “bello e ben fatto” che tutto il mondo ci invidia. Ogni abito Versace portava con sé non solo il marchio della Medusa, ma il saper fare di centinaia di persone: era un prodotto culturale collettivo. Questo ha generato valore e posti
di lavoro non solo per la nostra azienda, ma per tanti fornitori e terzisti, spesso in zone economicamente depresse che grazie a queste collaborazioni hanno trovato slancio. E all’estero, il nome Versace ha contribuito a rafforzare l’attrattività dell’Italia: quante volte a New York, a Tokyo, a Dubai, mi sono sentito dire che attraverso la moda di Versace la gente sognava l’Italia, desiderava visitarla, conoscerne l’arte e lo stile di vita.
Un marchio di lusso può essere un ambasciatore culturale potente.
Infine, un aspetto cruciale del modello Versace è stata l’esperienza nella costruzione di una filiera integrata. Non volevamo solo disegnare vestiti e affidarci passivamente a fornitori sconosciuti. Abbiamo costruito nel tempo un rapporto strettissimo con la nostra filiera: alcune produzioni le internalizzammo, per altre stringemmo partnership di lungo periodo. Volevamo controllo totale sulla qualità e sui tempi, e allo stesso tempo investivamo nei nostri partner, aiutandoli a crescere con noi. Ricordo che introducemmo innovazioni nei processi produttivi, ad esempio perfezionando tecniche di stampa su tessuto e di lavorazione di materiali come la maglia metallica (il celebre “metal mesh”), sviluppando know-how che poi condividemmo con la filiera. Era un approccio quasi da industria integrata: stilista, manager, operai specializzati, artigiani, tutti parte di
un’unica squadra allargata, con l’obiettivo comune dell’eccellenza. Credo che questo abbia fatto la differenza nel successo duraturo di Versace. Tutto ciò fa di Versace un caso di studio emblematico per chi voglia capire come un brand di lusso italiano possa creare un sistema produttivo innovativo e di valore. Creatività distintiva, organizzazione manageriale
solida, strategia globale, radicamento territoriale e controllo della filiera: ecco le dimensioni critiche e interdipendenti che hanno reso Versace un modello. Un modello in cui l’“alto di gamma” non è fine a sé stesso, ma diventa motore di sviluppo economico e culturale.
Vorrei sottolineare un punto chiave: in Versace siamo sempre stati attenti a valorizzare cultura, identità e competenze locali, anche quando operavamo sui mercati mondiali. Questo perché eravamo consapevoli che la nostra forza risiedeva nelle radici. Ogni collezione di Gianni traeva ispirazione dall’arte italiana, dalla mitologia greca della Magna Grecia calabre se, dalla nostra terra e storia. Trasformavamo il locale in globale, l’identità italiana in linguaggio internazionale. In un mondo che uniforma, noi puntavamo sulla differenza come valore. E credo che proprio questo approccio abbia fatto del caso Versace qualcosa di più di un semplice successo commerciale: lo ha reso un paradigma culturale di riferimento.
3. Ecosistema imprenditoriale e leadership istituzionale
Con il successo di Versace, il mio ruolo si è evoluto oltre i confini dell’azienda di famiglia. Ho capito che per rafforzare il sistema della moda e del lusso italiano non bastava far bene in casa propria: era importante contribuire alla crescita dell’intero ecosistema imprenditoriale dell’alto di gamma e assumerne la leadership a livello istituzionale quando
necessario. Le imprese culturali e creative ad alta intensità valoriale, come Versace, possono fungere da potenti attivatori di capitale umano e catalizzatori di reti. In altre parole, un’azienda di successo può trascinare altre realtà, formare professionalità, stimolare collaborazioni in un effetto moltiplicatore.
Sin dagli anni ‘80, mi sono impegnato personalmente nella costruzione di reti e partenariati strategici. Ero convinto – e lo sono tutt’ora – che noi imprenditori, specialmente in settori di eccellenza come la moda, avessimo il dovere di fare squadra, di unirci per affrontare insieme le sfide globali. La concorrenza interna senza visione di sistema rischia di indebolire tutti; la coesione invece ci rende più forti. Così, nel 1992, insieme ad altri colleghi illuminati, creammo la Fondazione Altagamma, una Fondazione che riunisce le eccellenze del Made in Italy (dalla moda al design, dall’alimentare all’ospitalità, dalla gioielleria ai motori, fino alla nautica) con l’obiettivo di promuovere lo stile italiano nel mondo. È stata forse la mia iniziativa più importante al di fuori dell’azienda Versace, e ne vado fiero. Ci eravamo resi conto che espandere il nostro marchio non significava solo aprire negozi, ma anche affermare un’idea di Italia,  difendere e valorizzare un patrimonio comune. Mettemmo da parte rivalità e campanilismi e ci sedemmo attorno a un tavolo: Versace insieme a Ferragamo, Gucci, Zegna, Alessi, Fontana Arte, Baratti & Milano e tanti
altri grandi nomi, pronti per collaborare in nome del Made in Italy.
Mi nominarono primo Presidente di Altagamma, incarico che accettai con entusiasmo e senso di responsabilità. Impostai subito una leadership collegiale: niente personalismi, l’obiettivo era lavorare insieme. Fu un nuovo modo di esercitare la leadership manageriale, non più solo focalizzata sulla propria impresa, ma una leadership di sistema: mettere
la mia visione imprenditoriale e le mie competenze al servizio dell’intero settore. Devo dire che fu un’esperienza esaltante, ma anche delicata: tenere insieme tante aziende, spesso concorrenti tra loro, non era scontato. Ci riuscimmo perché condividevamo un’idea chiave, una visione unitaria. Anzitutto, non volevamo fare di Altagamma un club elitario fine a sé
stesso, ma un’infrastruttura collettiva per la competitività del Paese. Ci siamo detti: uniamoci per incidere davvero. Da questa convinzione è nato Adotta una Scuola, progetto pensato per colmare il divario fra formazione e impresa. Il nostro saper fare – artigianale e manageriale – doveva arrivare ai giovani, così da preservare e tramandare competenze spesso secolari. In quattro edizioni abbiamo coinvolto 59 brand, 65 scuole di 12 regioni e oltre 3.500 studenti, costruendo un ponte virtuoso fra tecnici, ITS Academy e aziende del lusso e formando i “talenti del fare” di domani. Sono convinto che il futuro del Made in
Italy si forgia anche nelle aule e nei laboratori, non solo nei consigli di amministrazione; per questo vedere i marchi di Altagamma impegnati a coltivare il capitale umano del futuro resta una delle mie soddisfazioni più grandi.
Un altro aspetto a cui tenevamo molto era la scelta del nome stesso, Altagamma. Volevamo comunicare sostanza più che apparenza, ed Altagamma ci sembrò perfetto: evocava qualcosa di “alto”, di esclusivo, ma non necessariamente elitario. Per noi alto di gamma significava il meglio del meglio, ma con umiltà e rispetto per il lavoro e il sapere. In
questo c’era già il germoglio di una visione etica: privilegiare la sostanza oltre l’apparenza, i contenuti oltre l’etichetta.
Oggi, a oltre trent’anni di distanza, Altagamma è cresciuta e conta più di 120 Soci, rappresentando aziende che complessivamente fatturano oltre 150 miliardi di euro. È diventata una realtà autorevole, che produce ricerche, organizza eventi, dialoga con le istituzioni, sempre con lo scopo di migliorare la competitività del nostro sistema di eccellenze. Questo dimostra una cosa fondamentale: la collaborazione è la chiave
per competere a livello globale, e il valore dell’eccellenza italiana risiede non solo nei prodotti, ma in un intero ecosistema fatto di storia, talento e capacità imprenditoriale. Insieme siamo riusciti a fare quello che da soli sarebbe stato impensabile. Abbiamo mostrato al mondo che l’Italia del lusso sa fare sistema senza sacrificare le identità dei singoli.
In occasione del trentennale di Altagamma, abbiamo voluto mettere nero su bianco i princìpi che ispirano questa visione condivisa. È nata così la Carta dei Valori della Fondazione, che sancisce i valori identitari di questo ecosistema: la creatività e la cultura come motori del bello e l’impegno verso la sostenibilità come base per un modello di crescita etico e inclusivo. Sono valori che sentiamo nostri da sempre, ma che da allora abbiamo formalmente adottato come stelle polari per guidare le nostre imprese verso il futuro. Guardando indietro a quanto costruito, provo un profondo orgoglio perché so di aver contribuito a qualcosa di più grande di me. Ma so anche che il lavoro non è finito: il Made in Italy d’eccellenza va difeso e rilanciato di continuo, specialmente da voi giovani. E proprio a voi, che siete il futuro, voglio rivolgere un messaggio chiaro e appassionato, da padredi famiglia e da imprenditore: credete nel talento italiano, investite nel sapere, abbiate coraggio. Il futuro dell’Italia è nelle vostre mani, così come, trent’anni fa, noi costruimmo  Altagamma per proteggere e far crescere il nostro patrimonio. Abbiate fiducia nella vostra creatività e nei vostri valori; cercate alleanze, lavorate in rete, perché nessuno costruisce grandi cose da solo. Se noi imprenditori della generazione precedente siamo riusciti a unire le forze per portare il Made in Italy nel mondo, voi potrete fare ancora di più nell’era digitale e globale che vi attende. Questa capacità di visione di sistema, di spostare la leadership dall’orizzonte della singola impresa a quello di un intero settore o di un intero
paese, è forse uno dei contributi di cui vado più fiero nella mia carriera. Ho sempre cercato di mettere la mia esperienza a disposizione dell’Italia, partecipando attivamente al dibattito pubblico, sia attraverso associazioni come Altagamma, sia, in seguito, anche nelle istituzioni (ho avuto l’onore di servire il mio Paese come parlamentare per alcuni anni,
portando in quelle sedi le istanze delle imprese e dei territori). La leadership imprenditoriale, a un certo punto, deve farsi anche leadership civica: significa sentirsi responsabili non solo verso i propri dipendenti o azionisti, ma verso una comunità più ampia, verso un patrimonio collettivo da trasmettere intatto – possibilmente accresciuto – alle generazioni successive. Questo è ciò che intendo per leadership di sistema.
Altagamma, da questo punto di vista, è stata un primo passo importante. E sono lieto di dire che quell’idea germogliata nel 1992 ha ispirato molte altre collaborazioni settoriali e territoriali in Italia, in tanti ambiti diversi, dal food all’automotive al turismo di qualità. Quando c’è una visione comune e la volontà di perseguirla insieme, l’Italia sa esprimere un’energia incredibile. Anche per questo mi rende particolarmente orgoglioso che Altagamma abbia deciso di riservare per me il ruolo di Presidente Fondatore a vita, un onore e una responsabilità che sento profondamente.
4. La restituzione come principio etico dell’impresa 
Desidero adesso affrontare un tema che ritengo essenziale, un elemento che ha profondamente guidato non solo la mia esperienza imprenditoriale, ma la mia intera visione della vita: la restituzione. Restituire, nella mia concezione, non è soltanto un atto di solidarietà o beneficenza isolato, ma un impegno costante e un principio etico
fondante per chi fa impresa. Sono convinto che ogni successo imprenditoriale comporti una responsabilità verso la società e il territorio da cui proviene, e che una parte del valore generato debba necessariamente essere restituito alla comunità, soprattutto a coloro che vivono situazioni di difficoltà e marginalità. Questo principio trova le sue radici profonde nella mia famiglia, nei valori che ho respirato sin dall’infanzia. Mio padre Nino mi ha insegnato con la sua semplicità disarmante quanto valesse il rispetto per l dignità umana, quando, di fronte a clienti in difficoltà economiche, preferiva strappare cambiali piuttosto che umiliarli. Mia madre Franca, sempre generosa e attenta ai bisogni degli altri, ha rafforzato in me la convinzione che l’impresa debba essere anzitutto umana e solidale. Sono esempi che hanno segnato indelebilmente la mia idea di fare impresa e di essere uomo. Ma è soprattutto grazie a mia moglie Francesca De Stefano Versace che questa visione etica si è tradotta in azioni concrete, strutturate e durature.
Nel 2021 abbiamo dato vita alla Fondazione Santo Versace Ente filantropico, che Francesca ha trasformato nel centro della sua e della nostra vita, guidandola con passione, dedizione e sensibilità. Ama dire che questa Fondazione è “il figlio che non abbiamo avuto”, una metafora potente che esprime tutto il nostro impegno verso il futuro, la nostra eredità spirituale e sociale, fatta di cura, solidarietà e attenzione verso i più fragili.
La Fondazione Santo Versace è molto più di un’organizzazione, è una grande famiglia che si pone accanto ai più fragili, aiutando giovani e adulti in situazioni di difficoltà, di emarginazione e di disuguaglianza sociale, persone accomunate dal bisogno di riscatto, di cura, di affetto e di attenzione.
La Fondazione Santo Versace sostiene numerosi progetti in Italia e all’estero, collaborando con diverse realtà impegnate sul territorio. In particolare, realizza direttamente due iniziative di grande rilievo: in Kenya, “Il Miracolo della vita”, e nel carcere di Bollate a Milano, “Abbracci in Libertà”. Con il nostro primo progetto internazionale “Il Miracolo della vita”, realizzato insieme alle associazioni locali Amani e Koinonia Community, abbiamo voluto mettere al centro il valore della vita. Attraverso l’acquisto di una casa nella baraccopoli di Kibera a Nairobi, abbiamo creato un rifugio stabile per giovani madri senza fissa dimora, costrette a vivere per strada con i loro bambini in condizioni di estrema vulnerabilità. Per noi la vita ha un valore inestimabile, da proteggere con ogni sforzo. Questa casa è un simbolo di speranza e rinascita: un luogo dove giovani madri e i loro figli trovano, e troveranno anche in futuro, non so lo protezione, ma anche la forza e gli strumenti per riappropriarsi della propria autonomia e dignità, per guardare alla vita con fiducia.
“Abbracci in Libertà” è il nostro primo progetto in Italia, nato dall’esigenza di creare un ambiente accogliente all’interno del carcere di Bollate per tutelare il legame madre-figlio anche in condizioni di reclusione, rendendo i loro incontri più sereni e significativi. Abbiamo scelto di intervenire in ambito carcerario consapevoli che si tratta di una realtà complessa, che impatta profondamente anche sui familiari dei detenuti, in particolare sui bambini. Ci siamo impegnati a migliorare la qualità della relazione tra madri detenute e figli, per promuovere la continuità affettiva – un diritto fondamentale per ogni bambino – riqualificando un’area esterna del reparto femminile e trasformandola in un piccolo
parco giochi “a misura di bambino”. Attraverso il linguaggio della bellezza, questo spazio rinnovato regala momenti di serenità e amore. Questi progetti nascono proprio dalla visione ispiratrice di Francesca, che sin dall’inizio ha saputo delineare per la Fondazione un modo
di operare al tempo stesso strategico e compassionevole, capace di incidere davvero nella vita di chi soffre. In quest’ottica, la visione della Fondazione è quella di creare una rete della solidarietà composta da enti, istituzioni, imprese e donatori che collaborino per il bene comune, con l’obiettivo di promuovere il rispetto della dignità di ogni essere
umano, ovunque.
La Fondazione ha scelto di supportare diversi enti del terzo settore che, con i loro progetti, offrono opportunità lavorative, di formazione, di educazione, di inclusione e di riscatto sociale e personale a donne vittime di tratta, a persone detenute e a giovani in difficoltà. Vorrei citarne alcuni a titolo di esempio: “Redenta” è un laboratorio artigianale per la produzione di marmellate di altissima qualità, un progetto avviato insieme alla cooperativa
Pace in Terra e alla Comunità Papa Giovanni XXIII. Esso offre lavoro e opportunità di riscatto personale a donne vittime di tratta e di violenza, restituendo dignità e un futuro a queste donne profondamente segnate dalla sofferenza. Il progetto “Made in Carcere”, ideato dalla cooperativa sociale Officina Creativa oltre diciassette anni fa, rappresenta un ulteriore impegno a favore delle donne detenute. La Fondazione ha contribuito ad allestire,
all’interno dell’istituto penitenziario di Taranto, un laboratorio sartoria le in cui le detenute – dopo un’adeguata formazione professionale – possono imparare un mestiere, lavorare e prepararsi concretamente a un reinserimento nel mondo del lavoro al termine della pena.
Investire nella formazione e nella rieducazione delle persone detenute non è solo un atto di umanità, ma anche una strategia efficace per combattere la recidiva e promuovere un cambiamento sociale sostenibile e profondo.
L’impegno della Fondazione nei confronti del delicato e scomodo tema della detenzione si esprime anche nel progetto “Metamorfosi”, che pone lo sguardo sul fenomeno della migrazione attraverso una metamorfosi vera e propria: il legno delle barche dei migranti viene trasformato, dalle mani di persone detenute, in strumenti musicali e in oggetti di
carattere sacro come rosari e croci. Questo progetto, ideato dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti di Roma, coinvolge anche il Centro Astalli e la Fabbrica di San Pietro. Le componenti che danno forma ai “rosari del mare” e alle “croci di Lampedusa” – realizzati in carcere – vengono assemblate e confezionate da due donne rifugiate, il cui lavoro è sostenuto dalla Fondazione Santo Versace.
Desidero parlare anche di “Ragazzi al Centro”, un progetto innovativo cofinanziato dalla Fondazione e selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Nato da un’idea e dall’esperienza della cooperativa sociale Piccolo Principe Onlus, questo progetto si propone di creare uno spazio dedicato al benessere e alla crescita dei giovani tra i 13 e i 18 anni che vivono situazioni di disagio psicosociale o sono a rischio di dispersione scolastica. Esso mette i ragazzi più fragili al centro di un sistema di aiuto integrato, in cui il sostegno psicologico si intreccia con attività pratiche e formative. Sempre nell’ambito del disagio giovanile sosteniamo la comunità
“Nuovi Orizzonti”, che da anni si pone l’obiettivo di intervenire in tutti gli ambiti della fragilità sociale attraverso azioni di solidarietà. Questa comunità dedica un’attenzione particolare alle molteplici problematiche che affliggono i ragazzi di strada e, più in generale, il mondo giovanile. Tutte queste iniziative testimoniano come la solidarietà e la restituzione
siano elementi centrali nella nostra visione imprenditoriale e personale.
Per noi l’etica del fare si concretizza in partecipazione civica, azioni solidali e promozione di inclusione sociale autentica. Francesca e io abbiamo imparato che il vero successo non si misura soltanto in termini economici, ma nella capacità di generare impatti positivi nelle vite delle persone, trasformando la nostra fortuna in un patrimonio condiviso con
chi ne ha più bisogno.
In conclusione, ritengo che la restituzione debba essere concepita non come una semplice opzione etica, ma come un principio intrinseco alla natura stessa dell’impresa. Oggi più che mai, in un mondo segnato da disuguaglianze crescenti e da sfide ambientali pressanti, l’impresa deve assumersi la responsabilità di essere protagonista di un cambiamento
autentico. La mia esperienza personale e imprenditoriale mi ha mostrato chiaramente che un’impresa davvero sostenibile non si limita a minimizzare i propri impatti negativi, ma si impegna proattivamente a massimizzare quelli positivi.
In questo modo, la restituzione diventa il fulcro intorno al quale si ridefinisce il senso profondo di fare impresa: non più la mera ricerca di profitto, ma la costruzione di un benessere diffuso, inclusivo e duraturo. È questo il vero lusso del futuro, un lusso che non si misura soltanto con la ricchezza materiale, ma con la capacità di generare armonia, equità e crescita sostenibile per tutta la comunità.
5. Oltre il modello: verso un’economia trasformativa
Siamo arrivati al punto conclusivo di questo percorso, dove vorrei allargare l’orizzonte dalla mia esperienza individuale a una riflessione di sistema. Cosa ci insegna la storia che vi ho raccontato? Dove ci conduce, in prospettiva futura, il filo rosso che unisce visione, impresa, cultura, responsabilità? Io credo fermamente che la mia vicenda imprenditoriale possa servire da lente di lettura per un’economia più umana e sostenibile, per tracciare i contorni di ciò che definisco un’economia trasformativa.
Quando parlo con i giovani o con altri imprenditori, dico sempre: non accontentiamoci del mondo così com’è, immaginiamo il mondo come dovrebbe essere e lavoriamo per realizzarlo. L’economia non è una realtà immutabile, è una creazione umana: possiamo plasmarla con le nostre scelte. La mia esperienza mi ha insegnato che è possibile fare impresa in modo diverso, integrando crescita economica, responsabilità sociale e impatto positivo. Lo abbiamo fatto in Versace, a modo nostro, rompendo schemi nel business e restando fedeli a valori etici; lo stiamo facendo nei progetti di innovazione di cui mi occupo oggi, come vedere mo tra poco. Dal superfluo all’essenziale non è solo il titolo di questa lectio: è una filosofia che propone di ridefinire il lusso italiano non come semplice consumo ostentativo, ma come valore etico e sostenibile. Vi sembrerà forse un paradosso: il lusso, etico e sostenibile? Lasciate che vi spieghi cosa intendo. Il lusso, nella sua accezione più superficiale, richiama immagini di sfarzo, spreco, esclusività fine a se stessa – il “superfluo, appunto. Ma l’Italia ha dato al concetto di lusso un significato diverso, più profondo. Pensateci: la grande tradizione dell’alto artigianato italiano, dalla moda all’arredamento al cibo, ha sempre mirato alla qualità intrinseca, alla bellezza che dura nel tempo, alla cura quasi amorevole con cui si realizzano gli oggetti. Questo per me è l’“essenziale” del
lusso: non il prezzo o l’ostentazione, ma l’eccellenza, la cultura, la storia e l’innovazione che un prodotto porta con sé. Un abito di alta moda non è davvero “lusso” perché costa tanto; lo è perché rappresenta al meglio creatività, maestria, inventiva tecnologica, e perché fatto per durare ed essere amato nel tempo. Se il lusso degenera in eccesso vuoto e volgare,
perde la sua ragion d’essere. Ricordo ancora mio padre Nino che, pur essendo orgoglioso dei nostri successi, guardava con un certo imbarazzo tutto quel lusso che mano a mano ci circondava. Da uomo di altri tempi, frugale e concreto, forse non capiva perché Gianni, Donatella ed io a un certo punto vivessimo immersi in tanta ricchezza. Il suo esempio di modestia mi è sempre rimasto dentro. In fondo aveva ragione lui: il lusso non deve mai perdere di vista l’essenziale, cioè la dignità del lavoro che c’è dietro, la qualità vera, e anche l’utilità sociale in senso ampio. Se diventa solo ostentazione, tradisce sé stesso.
Oggi più che mai, lusso deve voler dire sostenibilità e inclusione. Un prodotto di eccellenza italiano deve essere realizzato rispettando l’ambiente, valorizzando chi lo produce, magari contribuendo anche a cause sociali. Vi faccio un piccolo esempio: alcune grandi maison stanno in vestendo nel recupero di materiali di scarto, altre finanziano il restauro di opere d’arte o programmi per le comunità locali. Ecco, questo per me è “lusso essenziale”: un lusso che genera bellezza e insieme restituisce valore. In questa visione rientra a pieno titolo il paradigma di Innovazione Armonica ideato da Francesco Cicione, che ho abbracciato negli ultimi anni e che considero un approccio chiave per l’economia del futuro. L’Innova
zione Armonica propone di integrare in modo organico sviluppo economico, progresso tecnologico, impatto sociale e rispetto ambientale. Si fonda sull’idea che non possiamo più guardare alla crescita solo in termini di PIL o di profitti trimestrali, ma dobbiamo chiederci crescita di che, per chi e a che scopo. È un paradigma che recupera una visione integrale
dell’essere umano e del mondo, dove tutto è interconnesso e in equilibrio. In pratica, innovare in modo armonico significa progettare prodotti, servizi, modelli di business che siano eticamente fondati, socialmente utili e ambientalmente compatibili, oltre che economicamente validi. Sono concetti che possono sembrare teorici, ma vi assicuro che hanno applicazioni molto concrete. Ad esempio, nell’impresa armonica – così com’ è definita da questo paradigma – il profitto non è più l’unico fine, ma diventa un mezzo e la conseguenza di un’azione ben fatta: l’obiettivo ultimo è creare valore condiviso e soddisfare bisogni reali della comunità. Questo non vuol dire fare beneficenza invece che impresa, attenzione. Significa che l’efficienza economica si sposa con altre finalità, come la tutela dell’ambiente, la coesione sociale, l’innovazione responsabile. Una frase che riassume bene questa filosofia è: un’impresa privata di interesse pubblico. Sembra un ossimoro, ma è l’orizzonte a cui tendere: imprese che pur essendo private operino con la consapevolezza di contribuire al bene comune, generando benefici per le generazioni presenti e future.
Nel paradigma di Innovazione Armonica c’è anche un altro concetto che amo: l’accettazione del limite. In un’epoca in cui spesso si glorifica la crescita infinita, il progresso illimitato, qui si dice: no, riconosciamo i limiti – della natura, della società, dell’essere umano – e usiamoli come guida etica. Il limite non è un ostacolo da abbattere a ogni costo, ma un segnale di rispetto verso l’equilibrio naturale e sociale. Questo porta a una postura di umiltà e di ascolto, perfino a una dimensione spirituale del fare impresa. So che può suonare curioso sentir parlare di spiritualità in un contesto economico, ma pensateci: le grandi tra
dizioni umanistiche e religiose del mondo ci hanno sempre insegnato l’armonia, la giusta misura, la connessione fra scopo e senso. Ecco, innovare armonicamente significa anche questo: tenere insieme finito e infinito, immanenza e trascendenza, come poeticamente si dice, cioè tenere presenti i valori ultimi mentre progettiamo il prossimo prodotto
o la prossima startup. Io stesso sto cercando di portare avanti questa visione, sostenendo una iniziativa concreta e di grande respiro: Harmonic Innovation Group, un progetto promosso da Entopan. Uno straordinario ecosistema di imprese, startup e centri di ricerca che ha l’obiettivo di creare una sorta di “fabbrica” dell’innovazione nel Sud Italia, ispirata proprio ai principi dell’Innovazione Armonica. Immaginate: partendo dalla Calabria, si sta
lavorando per costruire un polo di eccellenza tecnologica e sociale che attragga talenti e investimenti da tutto il mondo, ma che al contempo rimanga profondamente radicato nei nostri valori mediterranei. Quando ho conosciuto Francesco Cicione, fondatore del progetto, mi sono sentito subito a casa: c’era una filosofia che sentivo profondamente mia.
Non si parlava solo di tecnologia e di industria, ma di un nuovo modo di fare impresa, in cui il progresso è legato alla responsabilità sociale, il valore del territorio cammina insieme alla spinta verso il futuro. Il paradigma di Innovazione Armonica su cui si fonda il lavoro di Entopan mi ha conquistato, perché incarnava ciò in cui credo: innovare non significa
solo fare qualcosa di nuovo, significa creare valore, migliorare la vita delle persone, lasciare un impatto positivo sulla società, guidati da un Senso più alto, etico e spirituale.
È quello che abbiamo sempre cercato di fare anche nel mondo della moda con Versace – magari in forme diverse – ma con la stessa ambizione, la stessa forza. Abbiamo rivoluzionato un settore rimanendo fedeli alle nostre radici, mettendo creatività e cuore in tutto ciò che facevamo. Oggi vedo questa stessa attitudine in chi sta costruendo nuove imprese armoniche: voler lasciare il segno, non solo economicamente ma anche
culturalmente e socialmente. E sapete qual è la cosa più bella? Vedere che finalmente il Mezzogiorno può diventare protagonista in questa trasformazione. Per troppo tempo
la nostra terra è stata terra di partenze, di cervelli in fuga, di giovani costretti ad andare lontano. Oggi, grazie a iniziative come queste, possiamo cambiare la storia: fare del Sud un luogo di crescita, innovazione, speranza. I primi risultati già si vedono: attraiamo talenti e investimenti, dimostrando che il Sud può essere alla frontiera della trasformazione digitale e industriale; uniamo innovazione tecnologica e missione sociale, perché il progresso deve sempre servire il bene comune; creiamo un ponte tra passato e futuro, valorizzando il patrimonio culturale del Mediterraneo e proiettandolo in una nuova era. Quando penso a ciò che sta nascendo qui con Harmonic Innovation Group, rivedo il mio stesso percorso di tanti anni fa: dal Sud al mondo, da una “semplice” idea a una realtà di successo. Noi con Versace abbiamo rivoluzionato la moda; oggi Entopan e tutto il suo gruppo di lavoro sta rivoluzionando il mododi fare impresa, di innovare, di pensare il futuro. E, come facemmo noi allora partendo dall’Italia e restando fedeli alla nostra identità, qui si sta creando un nuovo modello di eccellenza – un vero e proprio “Made in Italy” dell’innovazione. Sono convinto che questa esperienza potrà ispirare molti altri e diventare un modello per il Paese. Ne sono fiero, e soprattutto sono fiducioso che il meglio deve ancora venire. Insieme giovani, imprenditori, istituzioni, società civile – possiamo fare la differenza, insieme possiamo veramente trasformare l’economia e la società in senso armonico e inclusivo.
Il caso Versace, riletto con questa chiave, può essere un possibile arche tipo di questa nuova economia trasformativa. Pensateci: un’impresa che nasce dalla cultura e dalla creatività (quindi con una forte componente culturale), che produce ricchezza economica ma anche simbolica, che crea posti di lavoro qualificati, che impatta sul territorio, che fa rete con altre imprese, che restituisce attraverso la solidarietà… Non è forse un modello in cui impresa, cultura e responsabilità convergono verso un nuovo paradigma di sviluppo? Certo, ai tempi nostri non avevamo teorizzato tutto questo, lo vivevamo e basta. Ma col senno di poi, mi rendo conto che la nostra storia conteneva già gli elementi di un paradigma diverso da quello dell’azienda puramente orientata al profitto.
E oggi, con maggiore consapevolezza, possiamo trarne delle lezioni per costruire il futuro.
In questo nuovo paradigma, l’impresa diventa una piattaforma culturale, sociale e inclusiva. Non un soggetto economico isolato, ma un nodo di una rete che comprende comunità, istituzioni, ambiente. Un soggetto cardine capace di generare valore condiviso e duraturo, oltre il profitto immediato. È un’idea potente: l’azienda come cittadino esemplare, che
paga le tasse giuste, rispetta i lavoratori, inquina meno possibile, sostiene l’arte e la conoscenza, abbraccia cause sociali. Utopistico? Io credo di no. Credo sia l’unica via sensata per il futuro. E non lo dico da ideali sta ingenuo, lo dico da uomo che ha visto come unire profitto e valori sia non solo possibile, ma vincente sul lungo periodo. Oggi i mercati premiano le aziende sostenibili, i consumatori chiedono responsabilità, i giovani talenti scelgono di lavorare per aziende con uno scopo e un’anima. C’è una convergenza storica verso questa economia più umana. Sta a noi esserne interpreti e acceleratori.
Cari studenti, mi rivolgo in particolare a voi mentre concludo questa riflessione: il mondo che verrà dipende dalle scelte che farete. Non abbia te paura di sognare un’economia diversa, più giusta, e non pensate che siano discorsi troppo grandi per le vostre singole vite. Anche se iniziare te domani come piccoli imprenditori, come professionisti, come ricercatori, portate dentro di voi questa idea di Innovazione Armonica. Chiedetevi sempre quale impatto positivo può avere il vostro lavoro. Coltivate l’armonia tra ciò che fate e ciò in cui credete. Così facendo, sarete non solo attori di mercato, ma attori di cambiamento. L’Italia, con la sua storia di umanesimo, bellezza e ingegno, può essere la culla di questa
nuova economia trasformativa. Dal nostro “lusso essenziale” – fatto di cultura, qualità e solidarietà – può nascere un modello di sviluppo in cui prosperità e bene comune coincidono. Vi confesso che, dopo tanti anni di carriera, guardo al futuro con occhi
da ragazzo, carichi di speranza. Vedo le nuove generazioni piene di consapevolezza. Vedo creatività, voglia di fare, e soprattutto sete di senso. E allora mi dico: Santo, il meglio deve davvero ancora venire! Continuiamo tutti a lavorare, ciascuno nel proprio ruolo, per un’economia che tenga insieme crescita, senso e sostenibilità. Così, dal superfluo passe
remo all’essenziale, e riscopriremo il lusso italiano – e con esso la stessa idea di successo – non come uno status symbol bensì come strumento di armonia e inclusione.
Auguro di cuore a tutti i giovani di trovare la loro strada, seguendo i loro sogni senza mai perdere di vista i valori. Il futuro appartiene ai giovani: è loro diritto e loro dovere farne un capolavoro di innovazione e umanità.

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