Chissà cosa deve aver pensato Francois Henry Pinault, presidente del Gruppo Kering, a cui fa capo tra gli altri marchi, la maison Gucci, guidata per otto anni da Alessandro Michele, ora direttore creativo di Valentino (ricordando che il Gruppo Kering ha già acquisito anche il 30% della Valentino, con opzione entro il 2028 d’impossessarsi della totalità del brand) quando, entrando nella sala che ospitava la sfilata della maison romana a Parigi, ha sentito il rumore dello scarico di un water. E si è trovato con il resto degli ospiti di fronte a una scenografia che prevedeva una sorta di bagno pubblico, con veri lavandini di porcellana, specchi illuminati da luci al neon, docce con porte color rosso inferno, da cui spuntavano piedi nudi e polpacci pelosi di uomini e donne. Senza contare che il parterre del fashion show, introdotto in una sorta di bagno pubblico di un club, era davvero ricco: Bianca Balti, Alessandro Borghi con mantella da principe azzurro e jeans, Jared Leto con capelli più corti e quindi meno “gemello” di Michele anche se intervistato dal Tg1 Rai dice che lo sente come un fratello di madre diversa. Ma anche Alexa Chung e Victoria de Angelis dei Maneskin.
Perché Alessandro Michele ha voluto questa provocatoria mise en scene di fronte al suo ex boss, che presto lo sarà di nuovo? Lo spiega proprio lo stilista nella nota che precede la sfilata, intitolata Il meta teatro dell’intimità, dove cita filosofi e piscoanalisti.
“Sembra a volte che la parola intimità – ricorda Alessandro Michele citando il filosofo e psicanalista Romano Madera – porti con sè un alone di senso che la avvicina a una promessa di autenticità di spazio protetto, nel quale è possibile finalmente toccare la verità nascosta delle persone, al di là delle vestizioni nelle uniform dell’apparire. Ma possiamo realmente entrare in contatto con il vero sé, allontanandoci dalla superficie delle cose? E’ possibile pensare all’intimità come chiave a un nucleo profondo di veridicità, in contrapposizione alle maschere che la civiltà di massa vorrebbe imporci? Questa esaltazione dell’intimità come rifugio mi sembra un’illusione scivolosa: il tentativo di rintracciare solidità e permanenza identitaria nel fluire cangiante delle nostre esistenze; il desiderio inconfessabile di ricondurre a unità il caleidoscopio irriducibile e costitutivamente molteplice del nostro io. Dovremmo saperlo, nessuna intimità può denudarci in maniera definitiva, nessun velo può essere strappato per porci di fronte al nostro vero sè. Perchè l’idea che possa esserci un sé autentico, immune dalle determinazioni della vita, è un inganno. Tanto vale capire che anche la più profonda delle intimità è in fin dei conti un teatro. O meglio un meta teatro dell’esistenza: uno spazio-tempo dietro le quinte che tuttavia manifesta i caratteri di messinscena mai conclusa. Una rappresentazione misteriosa e plurale in cui decidiamo di confrontarci con il più alto tasso degli interrogativi: chi siamo? Considerare l’intimità come uno spazio meta teatrale non vuol dire negarne l’importanza. Si tratta piuttosto di scartare molti involucri senza la pretesa di trovare finalmente il nocciolo, l’essenza nascosta e per questo più vera, della messa in scena dell’esteriorità, dei giochi dei ruoli, della dissimulazione, sostiene Madera. Già Ludwig Wittgenstein aveva decostruito l’opposizione tra profondità e superfice, evidenziando come l’esteriorità incorporasse tutto ciò che è profondo. Paul Valery riusciva a dirlo poeticamente: ‘Ciò che è più profondo nell’uomo è la pelle’. Qui tuttavia si vuole spingere il ragionamento anche nella direzione opposta. Non solo la superficie contiene profondità, ma è la stessa profondità a dover essere intesa come stratificazione delle superfici, come dice il filosofo Mario Perniola. A partire da quest premesse ho immaginato un bagno pubblico: un luogo
che neutralizza e sospende il dualismo tra interno ed esterno, tra ciò che è intimo e ciò che è esposto, tra il personale e il collettivo, tra ciò è intimo e ciò che è esposto, tra il personale e il collettivo, tra ciò che rimane privato e quello che si intende condividere, tra profondità e superficie. Un’eterotopia spaziale (Foucoult) in cui il rito di accudimento delle intimità mette definitivamente in scena la sua dimensione meta- teatrale. Il risultato è uno spazio distopico, perturbante, lynchiano: un luogo momentaneamente autonomo rispetto alla codificazione delle norme, orgogliosamente politico perché potenzialmente capace di sovvertire ogni rigida classificazione binaria. Uno spazio di apparizione in cui l’intimità riconquista il proprio ruolo di costruzione identitaria, tra vestizioni e svestizioni (Hanna Arendt), lontano da qualsiasi postura essenzialista”.
In questo “Meta teatro dell’intimità”, va in scena o in passerella una collezione dove la personalità di Alessandro Michele prevale sui codici tradizionali della Valentino dei nostri ricordi. Ma, “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, diceva Tancredi a suo zio il principe di Salina nel romanzo il Gattopardo. Così Alessandro Michele ha messo disordine nell’ordine di Valentino, prendendo dall’archivio quello che più sentiva suo. Così nella collezione per l’Autunno/Inverno 2025 2026 sono arrivate le cuffie sui capelli degli anni Sessanta, gli occhialoni da sole degli anni Settanta, i pantaloni a zampa dello stesso periodo, le calze di pizzo degli anni Novanta, che sembra vadano a ruba già da qualche mese. Per lui, i pellicciotti e le vestaglie dannunziane, ma anche le giacche in Harris tweed. Un cappotto pied de poule per lei, il nostalgico rosso Valentino per uno spolverino unisex. Tanti fiocchi di Valentiniana memoria a decorare abiti di pizzo e anche scarpe a punta con tacco alto. Un reggiseno prima misura in raso portato sul body di pizzo leggero, miniabiti di maglia stampa pitone con collo di piume. Un long dress color oro fatto tutto di balze plissettate, un altro abito da sera ricamato con paillettes che formano la faccia di un gatto persiano sul busto, l’abito Arlecchino che sembra ricorrere nelle collezioni di Michele, in patchwork di raso.
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